"Se hai due pani,
danne uno ai poveri,
vendi l'altro
e compra dei giacinti
per nutrire l'anima"
(massima indu')

Sito personale di Graziella Giovannini

Graziella Giovannini

Il Giardino del Guasto

La storia del giardino

Febbraio 24th, 2010

IL GUASTO NELLA STORIA

di Eugenio Riccomini*

Allora, vi racconto la favola di questo posto. Era il giorno dei morti dei 1506.

Quel giorno, i francesi che assediavano Bologna come alleati di Papa Giulio Il Della Rovere, tirarono tre col­pi di cannone contro le mura della città, come avverti­mento.

E Giovanni Il Bentivoglio, che abitava nel suo palaz­zo, capì che era inutile fare resistenza.

La città era divisa già da tempo, anche se fino a poco tempo prima di Giovanni Bentivoglio, si diceva che era l’uomo più potente della città, pur non avendo titoli, burocratici e gerarchici, per esserlo. Ma era di fatto il signore di Bologna e da un cronista del tempo sappia­mo che a Bologna non si faceva nulla se non c’era il permesso di Giovanni Bentivoglio.

Nonostante ciò, egli capì che il suo tempo e il tempo della sua famiglia ormai era finito.

Era una faccenda che andava avanti da parecchio tempo e che aveva segnato un po’ la vita di tutta la sua fami­glia: i tre capofamiglia, prima di lui, erano stati tutti uc­cisi e uno di loro. Anton Galeazzo era stato preso al­l’ improvviso e decapitato, in palazzo comunale, per or­dine del Legato Pontificio. Era una questione giuridica che si era trascinata per decenni e decenni, perché Bologna era fin dal medioevo città che aveva un lega­me feudale col Papa, quindi era di proprietà pontificia, anche se, già dai tempi dei Comune, Bologna aveva un suo “governo” e il Papa era un sovrano accettato pur­ché non si intromettesse nel governo della città.

Nel Quattrocento, infatti, la situazione si era evoluta co­me era la “moda”, diciamo così, storica del secolo: co­sì come era avvenuto in tante città italiane, da Firenze a Padova, a Milano, anche Bologna era diventata una “Signoria”.

I Bentivoglio avevano praticamente preso in mano il governo della città, pur mantenendo intatte tutte le isti­tuzioni ufficiali, “antiche”, e Giovanni costituiva I’”api­ce” di questa sequela di uomini della famiglia Bentivoglio, che in origine facevano lo stesso mestie­re di Guazzaloca, erano dei macellai.

Erano dei macellai e dei proprietari terrieri, ed erano diventati ancora più ricchi durante un lungo periodo, più o meno dal 1430 fino ai primi anni del Cinquecento. Avevano esercitato il dominio sulla città diventando ric­chi, perché, per esempio, avevano deciso, e avevano fat­to votare dal Comune di Bologna, dal “Reggimento” si chiamava, un decreto per cui il 5% di tutti i contratti di compravendita, e persino dei contratti di matrimonio, dovevano andare alla famiglia dei Bentivoglio.

E quindi erano diventati ricchissimi.

Si erano imparentati con famiglie importanti, come i Visconti a Milano. Avevano occupato cariche e acqui­stato terreni un po’ dovunque , soprattutto nella bassa.

Quel mattino, però, nonostante i cronisti dicano che Giovanni Il era molto amato dal popolo perché come go­vernante aveva capito che doveva avere il sostegno del­la città, e quindi non faceva solo una politica a favore della propria persona, o della propria famiglia; ma ogni gesto politico di Giovanni Bentivoglio era rivolto a di­fendere e a migliorare la vita dei cittadini bolognesi.

Era un signore, diciamo così, amato anche perché que­sta forma di governo, che manteneva intatta la struttu­ra apparente del governo libero, era in quegli anni forse l’unico modo di tenere assieme tutta la città con un so­lo rappresentante, che tuttavia difendeva la città da tut­ti i vari nemici vicini, che tesseva le alleanze. Giovanni era un uomo politico anche abile, che sapeva affronta­re le circostanze, concedeva sempre un omaggio rispet­toso, ma distante, nei confronti del Papa, coi quale non aveva mai rotto, anche se i cronisti dicono che i preti lo detestavano perché in fondo a loro toglieva potere. Comunque non aveva mai detto una parola contro il Papa, anche quando le mire della signoria pontificia si avvicinavano inesorabilmente. Ai tempi di Papa Borgia, infatti, voglio dire verso la fine del Quattrocento, il fi­glio del Papa che era un uomo politico e in special mo­do un militare, e si chiamava Valentino Borgia, aveva conquistato una dopo l’altra tutte le città della Romagna arrivando alle porte di Bologna.

Il Papa successivo era un Della Rovere, Giulio Il, che i cronisti descrivono come molto volitivo e molto guer­riero. E’ un Papa che si è fatto ritrarre con l’armatura addosso, per esempio. Per far capire che lui era, sì, un vescovo, e il più importante dei vescovi della cristianità latina, ma era anche un sovrano, e quindi poteva mettere, vuoi il triregno, vuoi l’elmetto, a seconda delle cir­costanze che si presentavano.

E quel mattino del giorno dei morti del 1506, quelle tre cannonate decisero la fine di una dinastia che era stata gloriosa e che fino a pochi giorni prima aveva lasciato a Bologna delle tracce insigni. Proprio nel 1506, l’ulti­mo dei Bentivoglio si apriva la cappella dei Bentivoglio nella Chiesa di San Giacomo, che è la loro chiesa, e il cui fianco fu fatto costruire dai Bentivoglio con una bel­lissima balconata di arenaria, un portico di arenaria, su cui sfila, ripetuto numerose volte, un fregio di terracot­ta grande, con la testa dell’Imperatore Romano. Lo stes­so fregio, identico, è quello che circonda tutto il palaz­zo di era bentivolesca, anch’esso di una famiglia parente dei Bentivoglio, i Sannuti, che oggi noi chiamiamo pa­lazzo Bevilacqua, in via D’Azeglio.

Altri segni della potenza dei Bentivoglio li abbiamo sot­to gli occhi tutti i giorni perché il palazzo dei Podestà, quello che sta in faccia a San Petronio, è stato fatto co­struire da Giovanni Bentivoglio e decorare magnifica­mente. Era un palazzo pubblico, ma costruito da archi­tetti di fiducia e pagati da Giovanni, anche se con i sol­di dei bolognesi.

Quella mattina quindi, lasciarono Bologna per sempre, i Bentivoglio, e finiva il periodo d’oro.

Il periodo in cui i Bentivoglio avevano fatto venire da Ferrara i più grandi artisti del Quattrocento ferrarese, avevano soffiato i migliori pittori di Borso D’Este, quel­li che avevano decorato Schifanoia: Francesco dei Cossa, Ercole de’ Roberti, che Borso D’Este pagava poco. E qui hanno fondato la scuola di pittura bolognese, che è opera loro. E il loro migliore allievo, ferrarese anche lui, era il Costa, colui che ha insegnato a dipingere al Francia, e sia il Costa che il Francia avevano dipinto qui dove siamo noi, adesso.

Dopo la rovina dei palazzo, sembra che Raffaello abbia scritto una lettera a Francesco Francia dicendogli pres­sappoco così: “Capisco il tuo dolore, perché hai lavo­rato tanto ad un affresco che oggi so essere stato di­strutto”. Da chi? Proprio dal padrone di Raffaello, Papa Giulio II, che gli faceva affrescare le stanze del Vaticano. Sull’aspetto dei palazzo dei Bentivoglio, noi abbiamo delle nozioni molto vaghe, perché purtroppo non c’è neanche un disegno del tempo, non è riprodotto in nes­sun quadro, e si riesce a indovinare più o meno la for­ma guardando il palazzo degli Strazzaroli, che è quello dove c’è la libreria Feltrinelli, in faccia alle Due Torri. Proprio perché quando gli Strazzaroli, che erano una corporazione, erano i mercanti di tessuti, una corpora­zione piuttosto potente, a Bologna, che aveva la sede lì, dove c’è la Feltrinelli oggi; quando, dicevo, decisero di erigere quel palazzo, dissero che doveva avere le forme decorative del palazzo dei Bentivoglio, e quindi rite­niamo che quel palazzo sia abbastanza simile all’origi­nale.

Un’altro palazzo fatto erigere al tempo dei Bentivoglio, e che probabilmente si ispira alla Ca’ Granda, si chia­mava così la Casa Grande dei Bentivoglio, Domus Magna, è quello della corporazione dei macellai. E’ an­cora in piedi, bellissimo, ve lo trovate di fronte, quel pa­lazzo, in fondo a via Drapperie.

Il palazzo, probabilmente, aveva una forma rinasci­mentale. L’architetto sembra che fosse Bagno di Lapo Portigiani, un fiorentino, di Empoli, e che quindi por­tava con sé le nozioni del l’architettura fiorentina, del­l’architettura dell’Alberti, del l’architettura di Brunelleschi.

Era un’architettura molto limpida. molto ritmata, molto chiara, e probabilmente il palazzo Bentivoglio aveva di bolognese una ricca decorazione intorno alle finestre, intorno alle porte, che sarà stata fatta in arenaria, so­pratutto in terracotta.

La terracotta allora era il modo più spiccio, più veloce e anche più fantasioso di decorare le facciate. Una di que­ste facciate sia pure un po’ distrutta dalle bombe, an­ch’ essa di epoca bentivolesca, è quella del Corpus Domini, in via Tagliapietre, dove c’è la Santa Caterina de’ Vigri.

Lì la facciata è in terracotta, così come il portale è in terracotta, ed è della stessa epoca più o meno di quella più piccola in via Val d’Aposa, dove c’è una chiesetta dello Spirito Santo: questi sono gli elementi che ci di­cono più o meno come poteva essere il palazzo Bentivoglio.

La struttura invece la conosciamo perché è descritta da uno dei capomastri che si chiamava Gaspare Nadi, e che era un capomastro muratore, ma era anche uno scrittore che teneva un diario, non solo delle cose che faceva lui, ma delle cose che succedevano a Bologna

E lui descrive proprio questo palazzo alla cui opera ha collaborato.

Il palazzo cominciava con una grande corte prima del­la facciata: la corte è rimasta, ed è uno dei luoghi più di­scussi di Bologna, ancora oggi, e si chiama Piazza Verdi. Quella è la corte che stava in fronte alla facciata dei pa­lazzo, ossia una corte d’onore.

Tutti i grandi palazzi signorili hanno un cortile davan­ti. E via Zamboni lì si allarga perché i Bentivoglio han­no deciso che di fronte al loro palazzo ci voleva una zo­na di rappresentanza.

Le case che sono di fronte all’attuale facciata del tea­tro, erano decorate a fresco. Non c’erano i mattoni a vi­sta, ricordatevi che nel Quattrocento e nel Cinquecento Bologna era fatta di mattoni, ma i mattoni non si vede­vano. E’ la sensibilità moderna, nostra, che ama vedere il bel mattone medievale.

I mattoni medievali erano brutti, ed erano sempre rico­perti da intonaci colorati e spesso non solo colorati, ma anche dipinti, a colori vivacissimi, a losanghe, a strisce di colori molto vivaci. Quella facciata lì, che oggi è tut­ta mattoni, era dipinta con le storie dei paladini di Francia, e con gli stemmi grandi di tutte le famiglie ami­che dei Bentivoglio. Quella piazza era una festa a ve­derla, pur essendo abitata da tipi poco raccomandabili, già allora, che erano gli sgherri dei Bentivoglio, con le spade, le alabarde, che andavano avanti e indietro a ve­dere che nessuno osasse disturbare la quiete dei princi­pi.

Dei principi non avevano neanche titolo nobiliare, lo­ro, erano i “Signori”.

Su quello slargo c’era anche la grande scuderia dei ca­valli, perché Giovanni Il Bentivoglio, in questa sua am­bizione nobiliare, aveva anche la mania dei cavalli e acquistava i più bei cavalli che trovava, in genere in­sanguati con quelli arabi.

Li teneva in una bellissima scuderia costruita forse da Gaspare Nadi, e che è stata per lungo tempo la mensa dell’Università, ed è un cannocchiale, lungo, quattro­centesco, bello come una biblioteca quattrocentesca.

Se entrate dentro ci sono due file di colonne, e i cavalli stavano, come in tutte le stalle, nelle navate laterali, mentre quella centrale era la zona di servizio. Quella era la scuderia dei cavalli da sella dei Bentivoglio.

E di lì uscirono i cavalli quel giorno dei morti, sui qua­li salirono i Bentivoglio e se ne andarono dalla città.

Quella era la corte.

Poi c’era una facciata con un portico imponente, pro­babilmente di dodici o tredici arcate, alta due piani con un marcapiano in terracotta e le finestre alla bolognese, ossia circondate da decorazioni in terracotta.

La terracotta era sempre colorata, non era come la ve­diamo noi. Era colorata e spesso dorata, una festa a ve­derla, e il fondo della parete era di sicuro colorato an­ch’ esso. Sulla cima, forse, c’era anche una fila di merli, come fosse un castello.

Era un bel palazzo!

Alcuni dicono il più bel palazzo principesco d’Italia, chissà se sbagliano per campanilismo, ma certamente era un grande palazzo, molto bello.

Si entrava da un androne a volta, e c’era un cortile che doveva essere simile, anche se più grande, al cortile dei palazzo Bevilacqua in via D’Azeglio; ossia un cortile quadrato, a loggiato a due piani, anche quello colorato e affrescato.

Da lì si procedeva in un’altro passaggio a volta e si en­trava in un secondo cortile e da questo secondo cortile si passava nel parco: il parco è il giardino dei Guasto.

Proprio qui c’era il parco con una grande fontana di pie­tra di Verona, probabilmente, con statue dappertutto; ac­qua che veniva dalla stessa fonte che più tardi sarà uti­lizzata per alimentare il Nettuno, e c’era anche un giar­dino con piante rare e con uccelli nelle voliere, così co­me c’erano in tutti i palazzi signorili.

La parte che dà su via Belle Arti non apparteneva ai Bentivoglio, ma Giovanni Il la comperò, comperò tut­to. Aveva tutto l’isolato che oggi è racchiuso da via Zamboni, via del Guasto, via Belle Arti e via Castagnoli. II palazzo comprendeva tutta quest’area e lui comperò tutte le case che stavano sul fronte di via Belle Arti, le fece abbattere, e vi ci fece fare le stalle.

Erano queste le stalle dove i Bentivoglio tenevano i cavalli da tiro, per i carri, per le carrozze; e fino a non mol­to tempo fa, quando io ero studente, si andava a man­giare in un ristorante su via Belle Arti, dal “Toscano”, che adesso è distrutto e sorgeva dove c’è il parcheggio, davanti al secondo dei palazzi dei Bentivoglio. C’era una fila di case, basse, di cui ne è rimasta una sola, che è l’attuale tabaccaio. Erano tutte casette di quella al­tezza, demolite inconsultamente, secondo me, e mi ri­cordo che mangiavo in una trattoria toscana con le vol­te quattrocentesche, e i capitelli del Quattrocento dei Bentivoglio.

Se guardate il parcheggio, il muro ha ancora le tracce delle volte e forse qualche frammento di capitello quat­trocentesco.

Ebbene, è chiaro che era un possesso enorme.

Questo palazzo con tutti i suoi affreschi, e i mobili, e le ricchezze, cadde in mano ai pontifici.

Giulio Il fece il suo ingresso solenne a Bologna, e pre­se possesso dei beni dei Bentivoglio, così come i Bentivoglio erano diventati ricchi anche perché aveva­no preso possesso di tutti i beni delle famiglie che loro avevano fatto cacciar via ( i Canetoli, per esempio, i Malvezzi).I Bentivoglio, cacciati da Giulio II, emigra­rono a Ferrara.

Il palazzo fu utilizzato per poco tempo dal Cardinal Legato, ossia dal Governatore Pontificio, e vi ebbe sede anche qualche riunione del consiglio comunale. Ma pre­sto i nuovi signori decisero che vivere in mezzo a tutti questi affreschi che celebravano la gloria dei Bentivoglio, e soprattutto in mezzo a una marca di se­ghe, perché lo stemma dei Bentivoglio è una sega, e se guardate bene per Bologna, di seghe ce n’è ancora pa­recchie.

Una delle grandi fabbriche dei Bentivoglio, per esem­pio, quelle che facevano per tenersi buoni i bolognesi, è un’opera pia di colossali dimensioni, ed è il portico dei Baraccano. Se voi andate al portico del Baraccano, vedete che un capitello sì e uno no, riporta la sega dei Bentivoglio, uno stemma con la sega in mezzo.

A un certo momento, l’ odio per questa famiglia battu­ta, sconfitta, estromessa da ogni potere, fece sì che su sollecitazione del Cardinal Legato e delle famiglie che naturalmente si erano tutte schierate dalla parte del Papa, decisero che il palazzo doveva essere distrutto.

Non fu distrutto razionalmente, ossia non fu dato in ap­palto ad un’impresa.

Si disse al popolo: fatene quel che volete. E il popolo lo distrusse tutto.

Lo demolì anche perché demolire un palazzo voleva di­re impossessarsi dei beni. I mattoni sono beni: si pos­sono riutilizzare per esempio.

L’ hanno distrutto sino alle fondamenta, hanno distrutto tutta la zona costruita che oggi occupa il Teatro Comunale, e i ruderi, i calcinacci, la terraglia, tutto ciò che non serviva lo ammonticchiarono qui dove c’era il giardino, dove c’era il parco.

Ne venne fuori una collina artificiale di detriti.

Ed è segnata in tutte le mappe bolognesi del Settecento come un zona vuota. E fino al 1740 circa, nelle mappe di Bologna si vede tutta la zona dove oggi è il Teatro, segnata con un tratteggio che indica una collina.

Non c’era nulla.

Nessuno aveva più costruito sulle rovine dei Bentivoglio. E nessuno costruirà mai. Nessuna famiglia ha mai co­struito dove c’erano le rovine dei Bentivoglio, tanto è vero che in un terreno centrale ambito, e vuoto, l’unico rimasto nel centro di Bologna, costruirà il Comune.

E il Comune costruirà il Teatro occupando più o meno la stessa superficie  che aveva occupato il palazzo.

I Bentivoglio avevano anche una torre, l’ultima delle torri erette a Bologna, l’ultima delle torri laiche e la più potente.

Molto alta, era la torre più alta di Bologna dopo l’ Asinelli. Aveva degli aggetti sommitali molto evidenti, ed era sormontata da una torricina con dentro un cam­panone che faceva concorrenza alle campane del Duomo, e alle campane del Comune, perché i Bentivoglio ama­vano sentire, e far sentire, la propria voce.

Di quella torre abbiamo trovato le fondamenta, in via dei Castagnoli. Era separata dal palazzo, ma collegata da un passaggio, da un arcone.

Era una torre potentissima, di cui un’immagine è rima­sta, dipinta nell’affresco della Madonna di Francesco Francia che trovate nel palazzo Comunale, nella Sala d’Ercole. Sotto la Madonna il Francia ha dipinto abba­stanza attentamente, con meticolosità, una veduta che ci mostra la torre.

Quello è l’unico documento in cui si vede la torre. Poi la torre fu dimezzata, e alla fine, nel Seicento, fu com­pletamente distrutta.

E in questo secolo, negli scavi fatti in via dei Castagnoli, furono trovati gli orci che Giovanni Bentivoglio aveva nascosto nelle fondamenta della torre con le medaglie, e le sue monete.

Su quelle monete rinascimentali c’era il suo profilo, e i suoi titoli che se li è dovuti inventare, perché non aveva titoli nobiliari, anche se è inciso, su di esse, un titolo come “Signore di Bologna” o “Protettore della città”, una cosa di questo genere.

Quella fu l’ultima delle glorie bentivolesche.

Da allora questa zona è rimasta, come ho detto, abban­donata, finché Antonio Bibiena non costruì il Teatro.

La parte dove siamo noi adesso non fu utilizzata, rima­se la collina dei detriti. Durante la guerra è stata utiliz­zata come rifugio contro i bombardamenti. Sotto ci so­no corridoi e gallerie, murate, che servivano come pa­raschegge e come rifugio dai bombardamenti.

Questa è stata una zona praticamente dimenticata fin­ché nel 1972 la Giunta Comunale decise di farne una specie di giardino, luogo per i bambini soprattutto, e diede l’incarico all’architetto Rino Filippini.

Nacque questo giardino allora molto discusso, molto criticato, però io mi ricordo che appena nata, questa co­sa qui era allietata da acqua che scorreva dappertutto. Nonostante fosse un giardino costruito, ovviamente, era comunque molto gradevole, ombreggiato, e io andavo là, su quella specie di balcone che dà su via Belle Arti, allora coperto da un grande albero che ora c’è più, e an­davo a leggere, e stavo benissimo, mentre qui era pieno di mamme con i bambini che si diverti vano moltissimo, perché facevano andare le barchette nell’acqua.

Era un luogo confortevole e molto piacevole.

Poi dopo le cose vanno così …. io non so perché…. e adesso siamo qui in un luogo che sarà restaurato: biso­gna vedere se la popolazione non è cambiata. Bisognerà vedere se una volta restaurato io posso veramente an­dare lì, a leggermi un libro in santa pace, per ore, cir­condato da bambini che giocano con le ochette.

Speriamo. La speranza è questa.


* Il testo è frutto di una conversazione  tenuta al Guasto nel 2000.

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