"Se hai due pani,
danne uno ai poveri,
vendi l'altro
e compra dei giacinti
per nutrire l'anima"
(massima indu')

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Graziella Giovannini

Materiali online

Multimedialità e integrazione sociale

Febbraio 24th, 2010

In V.Cesareo (a cura di), La cultura dell’Italia contemporanea, Fondazione Agnelli, Torino 1990

… Comincia, qui, la mia disperazione di scrittore… Quel che videro i miei occhi fu simultaneo: ciò che trascriverò, successivo, perché tale è il linguaggio. Qualcosa, tuttavia, annoterò.
J. L.Borges, L’Aleph


1. Linguaggi, ma non solo

Il linguaggio, come sistema di simboli volontariamente prodotti e condivisi attraverso il quale si esprime e realizza la comunicazione all’interno di una determinata comunità o gruppo sociale, costituisce indubbiamente un elemento essenziale del processo di socializzazione.

Nell’ambito delle scienze dell’educazione, l’analisi della relazione tra linguaggio e pensiero, linguaggio e conoscenza, linguaggio e apprendimento, costituisce uno dei capitoli più affascinanti, ma anche più controversi, soprattutto all’interno delle discipline psicologiche. Nell’ultimo quindicennio l’approccio costruttivista e il filone della social cognition sia di matrice statunitense che europea, hanno riattivato il dibattito sull’argomento, focalizzando l’elaborazione teorica e la ricerca empirica sui rapporti tra relazioni sociali, acquisizione del linguaggio e sviluppo cognitivo nell’infanzia, in un recupero dell’impostazione di Vygotskij contro il paradigma chomskiano e anche, in qualche modo, contro quello di Piaget, da cui pure si ricava l’impostazione costruttivista.

In campo sociologico, il linguaggio acquisisce una posizione centrale nell’analisi del processo di socializzazione di impostazione interazionista. Sicuramente, in questo filone la teorizzazione di Berger e Luckmann è non solo quella più conosciuta, ma anche la più articolata per quanto riguarda il ruolo del linguaggio nel processo di <<insediamento, completo e coerente, di un individuo nel mondo oggettivo di una società o di un suo settore” (Berger e Luckmann, 1969).

Più in generale, per questi autori il linguaggio è un sistema di simboli costruiti socialmente e capaci di codificare significati ed esperienze, in modo da essere accessibili ai soggetti e trasmissibili nel tempo. Attraverso il linguaggio si realizza l’oggettivazione dell’esperienza, nel senso di una sua trasformazione in conoscenza esterna all’individuo, trascendente rispetto alla realtà della vita quotidiana, progressivamente sedimentata nella tradizione culturale di una data collettività e interiorizzata dal soggetto in un incessante processo dialettico. E proprio questa crucialità del linguaggio come base e strumento della cultura collettiva ne determina la centralità nel processo di socializzazione. Attraverso il linguaggio il soggetto ha accesso alla cultura condivisa e ai suoi significati, interiorizza il mondo sociale oggettivato e diviene partecipe del processo di oggettivazione. Il linguaggio costituisce non soltanto il veicolo principale dell’intersoggettività su cui si costruisce la socializzazione, ma il suo stesso contenuto, soprattutto nella fase primaria. Ai fini della costruzione del primo mondo dell’individuo, della sua possibilità di accesso alla cultura comune e dello stesso possesso soggettivo di una identità, il linguaggio in sé è la cosa che più di ogni altra è necessario interiorizzare, al di là dei contenuti specifici e dei filtri legati alle appartenenze familiari e di classe.

In prospettiva teorica diversa, e con un forte carattere di determinismo sociale, il linguaggio manifesta la propria rilevanza anche negli approcci della riproduzione culturale e, più latamente, neomarxisti. Il concetto di capitale culturale che, nell’analisi di Bourdieu e Passeron (1972), definisce le chance del soggetto nella competizione per la distinzione nella scuola e nella società, comprende al suo interno le competenze linguistiche, possedute in maniera diversa dalle classi sociali, costruite precocemente nell’ambito della socializzazione familiare, con disuguaglianze legittimate e rese irreversibili dall’istituzione scolastica, che si attesta sui codici culturali della classe dominante. In questa prospettiva la padronanza del linguaggio costituisce pertanto una delle risorse di cui i soggetti dispongono per l’inserimento nella società ed è sostanzialmente strumento di selezione scolastica e sociale definito in base all’appartenenza di classe.

Ancora più chiaramente il linguaggio è al centro delle analisi di Bernstein sulle relazioni tra classi sociali e rendimento scolastico. Il linguaggio determina ciò che è rilevante dal punto di vista affettivo, conoscitivo e sociale: imparando a parlare, il bambino “impara anche la sua struttura sociale, che diventa il substrato della sua esperienza interiore attraverso gli effetti del processo linguistico” (Bernstein, 1969, p. 61), nell’ambito di una precisa connessione strutturale tra classe di appartenenza e uso del linguaggio.

Bernstein, come è ampiamente noto, ricorre al concetto di codice socio linguistico come insieme di norme che regolano l’uso delle forme lin­guistiche, nelle dimensioni lessicali e sintattiche, e l’organizzazione del discorso. I due tipi di codici linguistici   quello elaborato e quello ristret­to sono connessi rispettivamente alla classe media e alla classe lavora­trice, e il loro apprendimento avviene nel corso della socializzazione pri­maria, passando attraverso le relazioni sociali esistenti all’interno della famiglia di origine, a loro volta strettamente correlate all’appartenenza di classe (2), La scuola, fondandosi sull’uso del codice elaborato, discri­mina chi non lo sa utilizzare, garantendo la riuscita scolastica, e quindi sociale, del ceto medio. Il linguaggio si manifesta con chiarezza come il tramite fondamentale della disuguaglianza sociale e strumento di con­trollo delle relazioni tra i gruppi sociali.

La centralità del linguaggio nei processi di costruzione della disugua­glianza tra i soggetti e gli strati sociali caratterizza la maggior parte de­gli studi e delle ricerche degli anni sessanta e settanta sui condiziona­menti socioculturali all’accesso e alla riuscita scolastica, anche là dove il quadro di riferimento teorico non è ben definito e solo alla lunga si riallaccia alle teorie della riproduzione e alla sociolinguistica di matrice bernsteiniana (3). Va anche ricordato che, nello stesso periodo, le politi­che dell’istruzione miranti a obiettivi di uguaglianza di opportunità nei confronti della scuola fanno perno su un miglioramento dell’educazione linguistica delle classi svantaggiate, con l’introduzione di interventi isti­tuzionali precoci in grado di ridurre il “deficit” culturale riprodotto da una socializzazione familiare “deprivata” nei primi anni di vita dei bambini (4).

Pur nel comune riconoscimento dell’importanza fondamentale del lin­guaggio nella socializzazione, i diversi approcci teorici, da quelli degli I anni sessanta ai più recenti, ne individuano ben differenti ordini di si­gnificato e di rilevanza rispetto alla comprensione, determinazione o co­struzione della struttura sociale. Si possono tuttavia individuare due si­gnificativi elementi di omogeneità, particolarmente interessanti, ma anche fonti di fragilità nell’attuale fase di crescita della comunicazione tecno­logicamente mediata.

Il primo carattere di omogeneità è dato dal comune riferimento alla lingua parlata, alla comunicazione verbale.

In Berger e Luckmann l’equazione tra linguaggio ed espressione vocale è del tutto esplicita, legata del resto a una ben precisa valutazione di priorità della verbalizzazione su altri sistemi di segni:

“I segni sono riuniti in una quantità di sistemi. Così vi sono sistemi di gesticolazioni, di movimenti corporei tipici, di complessi di prodotti materiali lavorati, e cosi via […]. Il linguaggio, che possiamo qui definire un sistema di segni vocali, è il più importante sistema di segni della società umana [per la] sua capacità di comunicare significati che non sono espressioni dirette della soggettività hic et nunc” (Berger e Luckmann, 1969, pp. 59 60).

Si potrebbe tuttavia sostenere che questi autori, nell’enfasi posta sulle caratteristiche simboliche del linguaggio, finiscono per essere indifferenti alle tecnologie comunicative dello stesso o, meglio, per appiattire sull’espressione vocale le altre vie della comunicazione, il telefono, la radio, la stessa scrittura, definita come “sistema di segni di secondo grado>>.

L’indifferenza agli strumenti del comunicare è comunque riscontrabile in tutti gli autori e filoni sin qui citati che, più attenti alle funzioni del linguaggio che alle modalità di trasmissione, fanno della “comunicazione verbale” un contenitore più o meno eterogeneo di fenomeni linguistici, rispetto al quale, per contrapposizione, si specifica unicamente l’area della comunicazione non verbale (quella relativa ai sistemi di segnalazione spaziali, motorio gestuali, mimici…) (Ricci Bitti e Zani, 1983).

Il secondo elemento di omogeneità è costituito dal riferimento prevalente all’area delle relazioni face to face come ambito intersoggettivo nel quale e tramite il quale si apprende, si trasmette, si utilizza e, eventualmente, si costruisce il linguaggio, nella condivisione di regole e significati. Ciò rimane vero anche quando Berger e Luckmann allargano la “trascendenza” del linguaggio ai soggetti e alle esperienze lontane nel tempo (il passato, la storia) e nello spazio, o quando i sociolinguisti spiegano il filtro familiare in base alle determinanti di classe. Il riferimento alla socializzazione passa attraverso l’individuazione dei contesti primari di relazione (in particolare le famiglie), in cui centrale è l’interazione faccia a faccia adulto bambino mediata dal linguaggio e/o mirante all’acquisizione del linguaggio. Anche le più recenti ricerche legate al filone della social cognition sono centrate sulla microanalisi di relazioni intersoggettive adulto bambino, contestualizzate nello spazio e nel tempo, sia pure analizzate in prospettiva processuale e non solo in riferimento al risultato (Ugazio, 1988).

E invece proprio sui media in sé, e sull’enorme dilatazione in età con­temporanea delle interazioni sociali decontestualizzate spazialmente fino alla scala planetaria, che si ferma lo studio e la ricerca di un gruppo di autori, legati all’ambiente statunitense e provenienti da aree disciplina­ri eterogenee, che hanno lavorato negli anni cinquanta e sessanta, ma che godono oggi di rinnovata attenzione, soprattutto in territorio italiano (5).

In un periodo in cui gli studiosi delle comunicazioni di massa foca­lizzano l’analisi sui contenuti dei messaggi e sull’interpretazione degli effetti del sistema dei mass media sui processi di costruzione delle per­sonalità soggettive e delle strutture sociali, spesso con un approccio de­terministico e con una forte sottolineatura del potere omologante dei nuovi media, i “medium theorists>> (così li definisce Meyrowitz, 1985) individuano nei diversi media, o tecnologie comunicative, non solo sem­plici canali per il trasferimento di informazioni e messaggi, ma ambienti capaci di modellare il sapere attraverso l’attivazione di differenti dimen­sioni sensoriali e percettive, di influenzare l’interazione uomo mondo e, secondo alcuni, la cultura e il cambiamento sociale.

Complessivamente si tratta più di una prospettiva di studio che di una dettagliata teoria, con un deciso taglio storicizzante ma anche lette­rario: “I medium theorists non sostengono che i mezzi di comunicazione modellano integralmente e deterministicamente cultura e personalità, ma affermano che i mutamenti nei modelli di comunicazione sono mol­to importanti nel definire il mutamento sociale e che troppo spesso so­no stati sottovalutati” (Meyrowitz, 1985, p. 18).

H. M. McLuhan, certamente il più conosciuto in Italia, ha, come noto, sostenuto che “il medium è il messaggio”, che ci sono effetti di­retti dei media anche sul sistema culturale e sociale e che la stessa strut­tura di un sistema sociale è funzione della natura delle tecnologie che servono alla comunicazione e non del contenuto di queste comunicazio­ni. Secondo questa prospettiva, la storia delle civiltà passa dalla fase orale, alla fase della scrittura/stampa, a quella elettrico elettronica di quest’ul­timo secolo, con lente transizioni e sovrapposizioni, che vedono ogni nuovo medium rimodellare anche l’uso di quelli precedenti (che non scom­paiono) e manifestare tutta la propria potenza solo in fondo, quando alla fine ha permeato di sé tutte le istituzioni sociali. È solo a questo punto, del resto, che è possibile capire completamente gli effetti eserci­tati dal nuovo medium, mentre nella fase dell’affermazione e della pe­netrazione si è di fronte a una sorte di ottundimento della capacità di comprensione. Ed è forse questa consapevolezza (o ipotesi) che spinge i medium theorists a privilegiare l’analisi delle fasi precedenti quella elettrico elettronica: la maggior parte degli studi, in effetti, sono con­centrati sul passaggio dall’oralità alla stampa, ricavando l’analisi dell’ul­tima fase attraverso impressioni ed elementi di diversità dalle precedenti piuttosto che per compiuta trattazione di tutti gli elementi che la carat­terizzano. Ciò è meno vero per McLuhan, nelle cui opere l’attenzione ai mass media elettrico elettronici (in particolare la televisione) è forte, anche se decisamente non altrettanto analitica che nei confronti della “Galassia Gutenberg”.

Dal punto di vista educativo, qualunque sia la nostra posizione in merito ai più generali effetti sociali dei media, è tuttavia interessante fermare l’attenzione sulle modalità che legano i media ai processi intel­lettivi, passando attraverso la percezione sensoriale e modificando le re­lazioni tra i soggetti della comunicazione.

La comunicazione orale primaria (quella delle società che non cono­scono altro medium che la voce) si fonda sul privilegio dell’udito, il sen­so del coinvolgimento, dell’immersione, della compresenza. La comuni­cazione verbale è simultanea nel tempo e contestualizzata nello spazio, e, per quanto ogni tipo di pensiero sia in una certa misura analitico, il livello di astrazione è altamente limitato. Non solo i popoli a tradizione orale spesso ritengono che le parole abbiano un significato magico, ab­biano un potere sulle cose, con una confusione tra pensiero e azione, ma “ apprendimento e conoscenza in una cultura orale significano iden­tificazione stretta, empatica con il conosciuto” (Ong, 1986, p. 75).

Empatia, enfasi, coinvolgimento emotivo caratterizzano del resto la comunicazione orale, necessariamente di tipo “ tribale ”, face to face, in cui il collettivo trascende il soggettivo e in cui i contenuti di conoscenza vengono comunicati con variazioni continue legate alle caratteristiche dell’uditorio. L’oralità presuppone un’organizzazione mnemonica del sa­pere e, in qualche modo, il sapere è ciò che si ricorda, con una forte valorizzazione della memoria come strumento intellettivo e delle “for­mule ” come modo fisso di trattare i dati delle esperienze e di organizza­re intellettualmente l’esperienza stessa per facilitarne il ricordo, e quin­di la conservazione e la trasmissione nel tempo. Gli appartenenti alle culture orali primarie, per i quali non si può parlare di vere e proprie soggettività separate, “imparano, non attraverso lo studio in senso stretto, ma mediante una sorta di apprendistato   andando a caccia con caccia­tori esperti, per esempio   o come discepoli, ascoltando, ripetendo ciò che sentono, padroneggiando i proverbi e le loro combinazioni, assimi­lando altro materiale formulario” (ibid., p. 27).

La scrittura alfabetica e, in modo più compiuto, la stampa fornisco­no “un occhio al posto di un orecchio”, istituendo nuove relazioni fra i sensi e determinando nuovi processi intellettivi. Il senso dominante, la vista, è il senso della presa di distanza, della separatezza, della fram­mentazione. La scrittura crea un linguaggio decontestualizzato, artifi­ciale e simbolico, rendendo possibile un pensiero separato da una situa­zione di rapporti tra persone reali. La scrittura e la stampa favoriscono enormemente i processi di astrazione e concettualizzazione e, contem­poraneamente, proprio per le loro caratteristiche tecnologiche, la costru­zione di un pensiero sequenziale, lineare, via via sempre più standardiz­zato nelle regole di produzione e di trasmissione, e l’organizzazione fram­mentata in discipline del sapere. Rompendo la necessità della compre­senza reale fra i soggetti per la comunicazione, crea il “pubblico”, ma anche l’individuo, rendendo possibile in senso stretto “lo studio”, l’ap­prendimento in isolamento, l’introspezione e l’individualità. Cade, in questo contesto, la valorizzazione della memoria naturale come strumento intellettivo fondamentale, essendo possibile un supporto fisico esterno all’uomo per la conservazione e trasmissione del sapere; sempre più il processo intellettivo viene stimolato in direzione dell’acquisizione delle abilità di concettualizzazione, astrazione, razionalizzazione.

Il pensiero riflesso, formale, diventa “il pensiero” per eccellenza, ac­quisibile attraverso un processo di sviluppo apprendimento nelle prime età della vita, che diventa strumento di discriminazione sociale per chi ne rimane escluso. Diversamente dalla tecnologia verbale, l’apprendi­mento della lingua scritta e stampata richiede un lungo training, esso stesso “ separato ” dalla vita quotidiana e istituzionalizzato nel tempo al­l’interno di un’organizzazione scolastica in cui domina il “sapere del li­bro” e in cui anche la comunicazione verbale interpersonale è rimodel­lata dalla presenza della comunicazione stampata e dal suo tipo di orga­nizzazione della conoscenza.

Rileggendo sia Berger e Luckmann che Bernstein alla luce di questi confronti tra oralità e scrittura, si possono ricavare interessanti consi­derazioni. In effetti, nonostante Berger e Luckmann appiattiscano sul­l’espressione orale le altre vie della comunicazione, la loro analisi del linguaggio si ferma proprio su quelle caratteristiche di trascendenza dal­l’hic et nunc, sulle sue elevate potenzialità in ordine ai processi di este­riorizzazione, oggettivazione e interiorizzazione soggettiva della realtà sociale che ritroviamo in maniera precisa e compiuta nella descrizione dei processi intellettivi promossi dalla scrittura e dalla stampa secondo i medium theorists.

La distinzione tra codice ristretto e codice elaborato è riletta in ma­niera stimolante da Ong alla luce della diversità dei media:

“Il codice ristretto ha evidentemente un’origine e un’utilizzazione in gran parte orale e, come il pensiero e l’espressione orale, in genere opera in modo contestuale, vicino alla realtà umana: il gruppo che lo usava e che Bernstein aveva esaminato, era composto da ragazzi privi di istruzione scolastica superio­re e che facevano i fattorini. Essi si esprimevano in modo formulaico, e legava­no assieme i pensieri, non mediante frasi subordinate, ma “come palline in un pallottoliere”, è qui chiaramente riconoscibile il sistema formulaico e aggrega­tivo della cultura orale. Il codice elaborato si è necessariamente formato con l’aiuto della scrittura e   per una elaborazione maggiore   della stampa. Il gruppo di Bernstein che usava questo codice era costituito da individui provenienti dalle sei migliori scuole private inglesi, che forniscono l’istruzione più intensi­va nella lettura e nella scrittura. I codici linguistici “ristretto” ed “elaborato” di cui parla Bernstein potrebbero essere ribattezzati rispettivamente “codice basato sull’oralità” e “codice basato sulla scrittura” “(Ong, 1986, p. 151).

I media elettnco elettronici sono, infine, un’estensione del sistema ner­voso centrale, coinvolgendo contemporaneamente tutti i sensi, e rendo­no di nuovo la comunicazione istantanea, ma senza il vincolo del conte­sto spaziale. Reintroducono il “villaggio”, ma su scala globale, ripropo­nendo una sorta di mistica partecipatoria, relazioni emotive ed empati­che, concentrazione sul momento presente. Dal punto di vista dei pro­cessi intellettivi, la frammentazione, il punto di vista, la prospettiva ester­na cedono il posto alla visione di insieme, al campo, al pensare in situa­zione, all’esplorazione multipla delle variabili in gioco, ma anche alla valorizzazione delle emozioni, del conoscere per metafora, delle com­ponenti non cognitive e non razionali del pensiero. Mentre permane la svalorizzazione della memoria come strumento intellettivo e cresce enor­memente la quantità degli archivi esterni (Rossi, 1988), l’educazione torna a passare attraverso esperienze e ambienti non istituzionalizzati e diffe­renziati, in particolare attraverso i nuovi ambienti tecnologici.

Risulta chiaro, anche dalla descrizione sintetica, che pur parlando in generale di media elettrico elettronici, il riferimento è soprattutto al­la radio e, ancora di più, alla televisione, mentre il computer, almeno in un primo momento, sembra porsi, dal punto di vista del codice e del­l’organizzazione della conoscenza, in continuità con la stampa (7). Pen­siamo alla formalizzazione dei linguaggi, alla sequenzialità lineare delle procedure, alla trattazione “oggettiva>> delle parole, all’inevitabile ana­liticità dei processi e dei collegamenti. “L’elaborazione e la specializza­zione sequenziale delle parole, infine iniziate con la scrittura e intensi­ficate dalla stampa, hanno ricevuto un ulteriore impulso dal computer, che massimizza l’affidamento della parola allo spazio e al movimento (elettronico) locale e ottimizza la sequenzialità analitica, rendendola pra­ticamente istantanea” (Ong, 1986, p. 191). Diversamente dalla stam­pa, tuttavia, immodificabile nei contenuti da parte del ricevente, il com­puter consente l’interattività col testo, rompendo la comunicazione uni­direzionale e rendendo potenzialmente il soggetto non solo fruitore, ma anche produttore di conoscenza o, per lo meno, “fruitore differenziato”.

Uno degli autori che ha maggiormente contribuito a declinare l’ap­proccio dei medium theorists in campo educativo, D. R. Olson (8), sostie­ne che i diversi linguaggi, attivando vari tipi di processi mentali, produ­cono non solo differenti abilità cognitive, ma anche differenti conoscenze e rappresentazioni del mondo. I media, intesi come mezzi di comunica­zione e di istruzione, non sono solo vie alternative alla medesima cono­scenza e al medesimo scopo, ma definiscono l’acquisizione di contenuti diversi, differentemente organizzati dal punto di vista cognitivo. In questa prospettiva non esiste un’unica “intelligenza”, ma si possono individuare diverse intelligenze, legate alle specifiche abilità richieste e prodotte dai singoli media, come esistono diverse culture nelle diverse collettività uma­ne a seconda dei media prevalenti utilizzati. Il relativismo dell’intelli­genza spiega tuttavia anche la predominanza, di cultura in cultura, di un particolare tipo:

Alla luce della diversità tra oralità e scrittura, Olson interpreta an­che la differenza tra conoscenza scientifica e conoscenza del senso co­mune, rispettivamente mediate dalla stampa e da una lingua madre, de­scrivendo la scuola come luogo in cui predomina la lingua scritta forma­lizzata, linguaggio specializzato per le “funzioni di logica e verità”, perla descrizione e la spiegazione. Se culturalmente e socialmente è spiega­bile la raggiunta superiorità di questo tipo di conoscenza fino a essere identificato nella “conoscenza” tout court, con la conseguente emargi­nazione di quanti non riescono a padroneggiarlo, Olson arriva a soste­nere la validità di un approccio multimediale al sapere, con risvolti anche educativi. Se “i mezzi non sono vie opzionali per lo stesso scopo, ma sono vie ottimali per scopi diversi”, il ricorso alle diverse strategie può servire al conseguimento di mete diverse. Se in una società come la no­stra non si può rinunciare all’alfabetizzazione, bisogna però tener pre­sente che una serie di competenze pratiche non possono essere apprese attraverso la lingua scritta formalizzata e che è rilevante anche la cono­scenza del senso comune, mediata soprattutto dalla lingua madre, fon­damentale nell’azione contingente, quotidiana, e nelle relazioni inter­personali non strumentalmente orientate.

Si tratta, tuttavia, proprio per l’attenzione alla decisa specificità di ogni medium, di una multimedialità frammentata, in cui i singoli media sembrano operare in isolamento o in un confronto conflittuale, e in cui i diversi linguaggi (in sostanza la lingua madre e le varie specificazioni della lingua scritta) convivono senza integrazione, conquistando la pari dignità in relazione alla specifica efficacia nei confronti di fini differen­ti e di diversi ambiti di relazione umana.

Più articolato è il tipo di multimedialità che ritroviamo nei lavori di P. M. Greenfield (1985). Questa studiosa allarga decisamente il cam­po dei media, analizzando le diverse capacità mentali implicate e svilup­pate da stampa, radio, televisione, computer, ma sottolineando anche l’importanza del modo e del contesto di utilizzo e, in specifico per l’in­fanzia, le potenzialità dell’intervento dell’adulto e dell’azione educati­va. Se ogni mezzo di comunicazione privilegia determinati tipi di infor­mazione, di modalità di pensiero e di percezione, la multimedialità di­venta proposta educativa, come “modo per sviluppare tutti gli aspetti della mente e insegnare ai ragazzi ad aprirsi a prospettive diverse ” (ibid., p. 188). Ogni mezzo di comunicazione dà un contributo specifico allo sviluppo umano, essendo tutti complementari se si vogliono costruire personalità equilibrate nell’attuale situazione di ricchezza comunicativa ambientale. Anche se il concetto di “dieta equilibrata”, a cui ricorre l’au­trice, può far sorridere per la sua genericità, è importante sottolineare che in questa prospettiva la multimedialità non è costruita solo per ac­cumulazione, ma anche per integrazione, mediata dall’intervento del­l’azione educativa familiare, ma soprattutto scolastica. Una “didattica multimedia” dovrebbe sostituire nella scuola il privilegio della stampa, mirando non solo a costruire abilità intellettive diversificate, ma anche a sviluppare l’apprendimento di singole discipline da ottiche diversifi­cate. Del resto, secondo la stessa autrice, la possibilità di un uso combi­nato dei diversi media è già realtà quotidiana, consentendo il raggiungi­mento di risultati migliori rispetto all’impiego di ciascun mezzo separa­tamente.

E qui la riflessione sulla multimedialità ci trascina ancora più avanti, su un terreno in cui la tecnologia è sicuramente più avanzata della ri­flessione su di essa e in cui l’ottundimento culturale di cui McLuhan parlava per le fasi di cambiamento è particolarmente forte. La situazio­ne a cui ci troviamo di fronte è caratterizzata da significative innova­zioni nei singoli media e, soprattutto, da una progressiva integrazione tra le tecnologie della comunicazione, con la creazione di nuovi mix tra media che, dal punto di vista delle abilità intellettive sviluppate e ri­chieste, sembravano nettamente differenziati.

È affermazione riconosciuta quella che vuole ogni medium non can­cellato, ma rimodellato da quello che lo segue: la stampa non ha elimi­nato l’oralità e i media elettrico elettronici non hanno eliminato la stampa, lasciando in ogni nuova fase spazi e usi specifici per i media precedenti, con caratteristiche nettamente differenziate (ad esempio alcuni dialetti non sono mai diventati scrittura), ma creando anche nuove combinazio­ni capaci di trasformarli (come sarebbe possibile rilevare influenze dei vecchi media sui nuovi). L’aspetto più interessante, dal punto di vista dello sviluppo delle abilità percettive e dei processi di apprendimento­-socializzazione, si ha quando la nuova tecnologia comunicativa diventa mezzo di produzione e trasmissione di un medium che l’ha preceduto nel tempo e che ha caratteristiche sensoriali, percettive e cognitive to­talmente diverse.

Questa commistione è oggi esperienza quotidiana, soprattutto sotto l’impatto delle tecnologie elettroniche che diventano mezzi di produ­zione e veicolazione della stampa, della grafica, dell’immagine televisi­va, della voce e della musica. Telematica, televisione interattiva, me­morie ottiche, combinazioni telefono/computer/televisione, nuovi stru­menti di archiviazione dati comprensivi di scrittura audio video, tecno­logie ipermediali, ma anche la semplice oralità primaria filtrata dai me­dia elettrico elettronici, cambiano decisamente il mondo della comuni­cazione, rendendo difficile un’interpretazione separata dei diversi ef­fetti dei media e delle loro relazioni con lo sviluppo intellettivo e i pro­cessi di apprendimento socializzazione.

Tali trasformazioni, che si accompagnano a una crescita smisurata della quantità di comunicazione prodotta, veicolata e consumata, indu­cono alcuni, proprio a partire dal fluire rapido dei messaggi dall’uno al­l’altro supporto e per gli stretti legami produttivi, ad arrivare alla con­clusione di un annullamento della specificità dei singoli media:

In un’epoca di crescente delocalizzazione uno slogan come il “mezzo è il messaggio ” diviene forse ogni giorno un po’ meno vero, quel che conta davve­ro è l’oggetto della comunicazione (la notizia, lo spettacolo, la canzone…), in quella che diviene una crescente abilità e competenza nell’operare un bricolage informativo personale, tra le fonti disponibili, fino a cancellare la loro specifi­cità (Censis, 1989b, p. 150).

C’è anche chi, richiamandosi alle teorie dell’omologazione, interpreta globalmente i mass media e le tecnologie dell’informatica e della tele­matica come “nuovo linguaggio comune”: “I mass media sono l’angelo della nuova società di massa. Essi rendono possibile l’uniformità del lin­guaggio e le nuove differenze addomesticate” (Barcellona, 1990, p. 37).

Con riferimento ai processi culturali e, più specificatamente, educa­tivi, ritengo tuttavia che la strada da intraprendere sia quella di un’in­terpretazione della Multimedialità che tenga conto contemporaneamen­te degli aspetti di specificità e di quelli di commistione, della separazio­ne, anche in termini organizzativi e di contesto, come della combina­zione all’interno della stessa struttura o luogo.

Un interessante modello di analisi per gli aspetti di integrazione può essere costituito dallo studio del linguaggio cinematografico compiuto da E. Morin, per il quale le tecniche di regia proprie del cinema, l’uso strutturato del sonoro (musica o voce) “ senza distruggere le qualità af­fettive dell’immagine, e quindi l’ambivalenza simbolica […], innescano e sollecitano processi di astrazione e razionalizzazione che contribuisco­no alla costituzione di un sistema intellettuale” (Morin, 1982, p. 175). Crescendo in razionalità, ma radicandosi nell’affettività, il linguaggio cinematografico “realizza l’unità dei contrari […] ma permette ugual­mente la differenziazione e determinazione dei contrari: è un linguag­gio totale e polifunzionale” (ibid., p. 185).

Il problema della Multimedialità non ha tuttavia solo una dimensio­ne culturale, anche se è la prospettiva che abbiamo preferito privilegia­re in relazione alle tematiche educative. La Multimedialità, più o meno complessa e integrata, è anche la forma dell’industria della comunica­zione, uno dei settori trainanti della moderna economia e luogo di con­flitti politici. Non basta dire che la società attuale è la società della co­municazione: occorre aggiungere che la comunicazione costituisce oggi un comparto produttivo estesissimo, in costante espansione, in cui sta­to e mercato si confrontano attivamente e conflittualmente e che assu­me la Multimedialità come prospettiva globale, sia nel momento della produzione che in quelli della pubblicizzazione e della distribuzione com­merciale. Stampa quotidiana e periodica, editoria, radio e televisione, telefonia, cinematografia e teatro, musica e pubblicità presentano in­trecci sempre più stretti, di cui l’aspetto tecnologico è solo uno fra i tanti, anche se capace di rimescolare continuamente le carte. L’integrazione tra i media è oggi significativamente una delle forme dell’integrazio­ne finanziaria crescente e sempre mutante, dell’espansione delle multi­nazionali, dell’internazionalizzazione e “globalizzazione” della produ­zione 9. E, di conseguenza, anche luogo potenziale di conflitti e nuovo contesto in cui e rispetto a cui si costruiscono e si riproducono le nuove disuguaglianze in termini di potere, diritti, risorse individuali e colletti­ve. Tutto questo non può non avere ripercussioni sui luoghi della socia­lizzazione, non meccanicisticamente sovradeterminati dalle strutture del potere e della produzione, ma neppure oasi separate e autonome.

2. Multimedialità e policentrismo delle agenzie di socializzazione

Se sicuramente il passaggio da un modello scuolacentrico a uno poli­centrico fonda le sue radici su una molteplicità di cause (Cesareo, 1985; Morgagni, 1986; Giovannini, 1987; Frabboni, 1988) e di processi, l’in­troduzione massiccia nella società e nella cultura dei media elettrico­elettronici definisce la forma specifica del policentrismo contemporaneo, con l’entrata in campo di nuove agenzie e contesti formativi e la tra­sformazione di quelli tradizionali. La problematica multimediale segna sia la policentricità e la specificità dei contesti sia i percorsi di integra­zione/conflitto comunicativo tra e all’interno delle diverse agenzie.

Non c’è dubbio che il fenomeno più macroscopico e universalmente riconosciuto sia dato dall’entrata della televisione nei percorsi di socia­lizzazione degli individui, attraverso programmi intenzionalmente for­mativi e, soprattutto, attraverso la quotidiana e persistente rappresen­tazione del mondo attuale e dei suoi processi, mediata dal suo specifico linguaggio e dalla sua specifica organizzazione della conoscenza.

L’attenzione degli studiosi e degli educatori si è rivolta soprattuttoall’infanzia e, comunque, alle prime età della vita, anche se potremmo considerare la televisione come un contesto di educazione permanente, che accompagna l’uomo dalla nascita alla terza età, riducendosi solo par­zialmente l’utenza nell’età giovanile e adulta, quando entra in concor­renza con il lavoro e altri usi del tempo libero.

Le numerose ricerche su età evolutiva e televisione (per le quali si rimanda alla bibliografia generale), spesso segnate da preoccupazioni di ordine morale e sociale, partono da una comune considerazione di ordi­ne quantitativo: l’elevata esposizione dei bambini e dei preadolescenti ai programmi televisivi fin dai primi anni di vita, con percentuali di im­piego del tempo quotidiano che si avvicinano a quello del tempo scola­stico, con un progressivo prolungamento delle ore di utenza serale e senza significative differenze in relazione ai ceti e ai territori. L’analisi delle preferenze in merito ai programmi registra, come è ovvio attendersi, un privilegiamento deciso di cartoni animati (nella prima infanzia), film e telefilm, anche se l’arco di utenza è a tutto tondo ed è ormai accertato che il processo di scelta da parte dei ragazzi, progressivamente sempre più competente (10), segue sostanzialmente criteri di interesse personale.

Se molte sono le valutazioni pessimistiche nei confronti dell’impat­to educativo della televisione, soprattutto nel mondo americano (em­blematiche le posizioni di Postman, 1981 e Winn, 1984) e negli anni sessanta settanta, le ricerche più recenti mostrano orientamenti più ot­timisti ed eterogenei, tendono ad abbandonare il modello interpretati­vo degli “effetti” che aveva caratterizzato la ricerca massmediologica nei decenni precedenti e costretto l’analisi in rigidi schemi causali uni­direzionali, sottolineando l’intervento della televisione come luogo di costruzione e mediazione delle rappresentazioni sociali (Losito, 1988) e richiamandosi comunque alla necessità di prendere in considerazione un complesso di variabili diversificanti i processi.

Per quanto riguarda i contenuti, due sono soprattutto gli ambiti su cui si sono fermate tradizionalmente le ricerche, le preoccupazioni degli educatori e, più recentemente, le prime politiche per un controllo della comunicazione televisiva a favore dell’infanzia: la violenza e la pubbli­cità commerciale.

A decenni di distanza dal notissimo studio di Packard (1958) che, con toni decisamente apocalittici, individuava soprattutto nei bambini i referenti privilegiati della pubblicità, sia per allevarli come i consuma­tori del domani, sia come molle determinanti nei consumi familiari, la ricerca di Statera, Bentivegna e Morcellini (1990), pur non respingendo completamente l’ipotesi di una “violenza simbolica” delle strategie pub­blicitarie sui giovani spettatori, rileva la presenza di bambini competen­ti, capaci in maniera progressivamente crescente con l’età di filtrare i messaggi degli spot, ricavandone informazioni sui consumi, ma mostrando una propensione a fruirne come di uno spettacolo piuttosto che a subir­ne il potere manipolatorio. Gli autori, tuttavia, adottano una prospetti­va più complessa che vede nella comunicazione pubblicitaria un simbo­lico “meeting point”, un filtro “attraverso cui la rappresentazione dei differenti mondi vitali si trasforma in nuovi codici linguistici all’inter­no dei processi comunicativi dei minori” (ibid., p. 97), con rilevanza so­cializzativa generale e non solo in relazione al mondo dei consumi.

Sul tema della violenza, l’insieme dei dati oggi disponibili non forni­sce una risposta univoca, soprattutto per quanto riguarda l’induzione diretta di comportamenti aggressivi nei ragazzi (Manna, 1982; Variò, 1990). Se indubbiamente elevata è la quantità di contenuti manifesta­mente violenti (ma non sempre c’è accordo nelle ricerche sulla defini­zione operativa di “contenuto violento”) sia nei programmi di informa­zione che nella fiction, rilevante è anche la quantità di contenuti pro­sociali (relativi a comportamenti affettivi, azioni altruistiche, controllo di tendenze negative), soprattutto nei programmi di più recente produ­zione rivolti all’infanzia, dove

la vita quotidiana prevale nettamente sul mondo dell’avventura. Predominano l’intimismo e le questioni sentimentali su tutto. Il conflitto ha sostituito la guerra. L’amicizia, l’affetto, l’amore sono gli elementi più frequenti dell’intera program­mazione […] l’aspetto tecnologico ha ceduto il passo alla natura descritta nelle sue forme più varie (D’Amato, 1989, pp. XI XII).

Anche per questo tema, tuttavia, come per la pubblicità, accanto al­la considerazione di altre variabili di ordine socioculturale o di persona­lità, l’accento è oggi posto sulle influenze più generali in ordine alle rap­presentazioni della realtà sociale e alla correlata costruzione dell’identi­tà soggettiva. Si torna cioè, in sostanza, al tema delle relazioni tra tele­visione e sviluppo sociocognitivo mediate dalle particolari tecniche e dal particolare linguaggio televisivo.

Accanto alle considerazioni già sviluppate nel paragrafo precedente, è necessario fare riferimento (sia pure solo per accenni) ad almeno altri tre elementi:

  • il fluire rapido dei messaggi (anche se su questo aspetto può interve­nire in maniera determinante l’uso sempre più massiccio della video­registrazione e anche se ci sono già usi intenzionalmente educativi della televisione che sperimentano modalità più lente e riflessive) (11);
  • la centralità dei processi identificatori nell’apprendimento tramite la televisione, con il susseguirsi rapido di identificazioni in personaggi non solo umani, ma anche contrastanti tra di loro, con caratteristi­che di fungibilità;
  • l’intrecciarsi di informazione e fiction con commistioni tra i generi e all’interno dei generi che ne rendono più difficile la decodifica.

Quest’ultimo aspetto rimanda al tema, meno sviluppato dalle ricer­che ma sicuramente rilevante, della comprensione del messaggio televi­sivo da parte degli utenti, in particolare da parte dei bambini, intrec­ciandosi col problema della passività/attività della fruizione televisiva (Mazza, 1987). Se non c’è un limite iniziale nella capacità di fruire della televisione al di là di quello fisiologico percettivo relativo alla vista e all’udito, la “formazione dello spettatore” comporta le abilità di com­prensione e di decodifica del particolare linguaggio e delle tecniche del­la comunicazione televisiva. L’accresciuto interesse a valutare le varia­bili soggettive della fruizione televisiva, a capire cosa il bambino fa del mezzo, e, come abbiamo visto, la rilevazione empirica dell’esistenza di “bambini competenti” rendono particolarmente importante la compren­sione delle forme e modalità di apprendimento del linguaggio televisi­vo. Superando un modello sostanzialmente solo reattivo, per cui l’at­tenzione dei telespettatori più giovani è catturata e mantenuta soprat­tutto attraverso le caratteristiche “di salienza” del linguaggio televisi­vo, imperniato sulla sollecitazione di emozioni ed eccitamenti più o me­no intensi, a favore di un modello che vede l’utente in posizioni seletti­ve, orientato alla ricerca degli elementi simbolici e tecnici che gli per­mettono di comprendere il messaggio, è possibile interpretare la “com­petenza” come arricchimento cognitivo, sia pure di tipo specifico, fon­dato non solo sui processi di crescita, ma (almeno per ora) sull’esperien­za accumulata direttamente dal ragazzo e capace di limitare l’influenza manipolatoria del mezzo.

Fin qui la mia analisi è proceduta isolando la televisione, sia come contesto di socializzazione sia come tecnologia comunicativa. Se questo può essere giustificato da un punto di vista analitico, dall’effettiva cen­tralità del mezzo nella vita quotidiana e tra il sistema dei mass media e dalla fluidità imprendibile dell’innovazione tecnologica, non è suffi­ciente a capire i mutamenti complessivi nel processo di socializzazione.

La televisione attuale non è più in larga misura quella descritta nelle ricerche, in particolare per l’introduzione della videoregistrazione, ma più in generale per la polifunzionalità dello schermo televisivo rispetto a una pluralità di usi comunicativi ed elaborativi dell’informazione, e ciò richiederebbe, come già abbiamo sottolineato, un modello integrato di lettura dei linguaggi elettrico elettronici.

Ancor più la televisione (e questo fin dal suo primo diffondersi) non opera, neppure fisicamente, come agenzia separata, relazionandosi col contesto di fruizione. In specifico, la sua caratteristica di tecnologia “do­mestica” ne fa uno strumento potente di modificazione della socializza­zione familiare, intersecando il sistema di relazioni face to face genitori­figli e rendendo reale il policentrismo fin dall’inizio della vita.

Se le analisi sulla crisi della socializzazione primaria sottolineavano l’influenza dell’uscita sempre più precoce dei bambini verso agenzie ester­ne (Cesareo, 1974; Berger, Berger e Kellner, 1973), la televisione intro­duce all’interno dello stesso contesto familiare un potente polo di plura­lizzazione dei messaggi e di mediazione della stessa “pluralità di mon­di” esistenti al di fuori della famiglia. Il mutamento evidentemente non interessa solo i figli, messi a confronto precocemente con l’esperienza della pluralità dei linguaggi e delle immagini del mondo, ma anche i ge­nitori, essi stessi risocializzati dalla televisione, in grado, oltretutto, di influenzare le loro immagini dell’infanzia e di intervenire così anche nelle loro decisioni di educazione.

La relazione tra televisione e famiglia non è tuttavia univoca, nel senso di un’influenza della comunicazione televisiva sui modelli di interazio­ne e socializzazione familiare, ma può essere analizzata anche in dire­zione opposta, vedendo nei genitori un “filtro” efficace, nel bene e nel male, nei confronti della televisione. È quanto già hanno messo in luce abbondantemente gli studi e le ricerche del passato (Manna, 1982; Por­ro, 1984), ed è quanto si ritrova oggi, in prospettiva più progettuale che empirica, nella rappresentazione sociale della “buona>> socializzazione familiare. Se più in generale la crescita di rilevanza della famiglia nel lavoro di socializzazione che ha caratterizzato quest’ultimo decennio è legata ai nuovi compiti di mediazione rispetto al policentrismo e di orien­tamento nei confronti dell’aumentata serie di scelte che il soggetto è chia­mato a compiere nel corso della vita, una dimensione significativa di quest’opera di mediazione e orientamento è legata ai vecchi e nuovi mezzi della comunicazione elettrico elettronica, in un’azione che è contempora­neamente chiamata a essere di confronto con i contenuti (soprattutto in termini di valori e norme di comportamento trasmessi) e con i codici (1).,

Se il primo punto (quello relativo ai valori e alle norme) richiede chia­ramente un’analisi della condizione della famiglia contemporanea che esula dall’economia di questo lavoro, per quanto riguarda i codici va detto che la famiglia non può essere lasciata sola, essendo necessari una speci­fica competenza, non sempre posseduta dai genitori, e un intervento si­stematico che richiama più direttamente un’azione di tipo scolastico.

Se guardiamo alla scuola, possiamo già sostenere che essa non è più solo il luogo del libro, anche se in una maniera che è inversamente pro­porzionale ai livelli formativi. La televisione, sia pure faticosamente (e praticamente grazie soprattutto alla videoregistrazione), sta entrando nelle aule scolastiche, mitigando, sia pure di poco, i persistenti stereotipi ne­gativi degli insegnanti nei confronti della normale programmazione te­levisiva, imputata di istupidire i giovani e di influire sulla riduzione del­le loro capacità verbali e di applicazione allo studio.

Molto più rapidamente è entrato il computer (Varisco e Mason, 1989), prima come “palestra di logica”, alfabetizzazione diretta ai linguaggi in­formatici, e, poi, come medium trasversale alle discipline e ai loro lin­guaggi, arrivando a essere valorizzato oggi come via di apprendimento del medium prima dominante, la parola scritta e stampata.

Se i processi sono controversi, tra entusiasmi e opposizioni, e anche strutturalmente determinati da problemi finanziari e organizzativi, l’a­spetto più rilevante dal punto di vista formativo è che la Multimedialità sta attraversando la scuola non semplicemente come introduzione di sus­sidi (alla vecchia stregua dei sussidi audiovisivi), ma come mutamento, per dirla in termini olsoniani, dei “mezzi di istruzione”. I nuovi pro­grammi delle elementari, entrati in vigore nel 1988, definiscono chiara­mente l’alfabetizzazione come “acquisizione di tutti i fondamentali tipi di linguaggio e di un primo livello di padronanza dei quadri concettuali, delle modalità di indagine essenziali alla comprensione del mondo uma­no, naturale e artificiale”, e il piano nazionale per l’introduzione del­l’informatica nelle scuole italiane ne sottolinea soprattutto la funzione di medium culturale trasversale.

Ciò ovviamente non significa né che la scuola stia già attuando que­sto, né che la Multimedialità si realizzi e si debba realizzare all’interno della scuola all’insegna di una parità di investimento formativo sui di­versi media. Anche se già l’inserimento sociale nella realtà contempora­nea   dal punto di vista culturale, ma anche lavorativo e politico   pas­sa attraverso la capacità di gestire più codici comunicativi e se molti so­no convinti che “l’attenzione divisa”, grazie a cui i ragazzi di oggi sono contemporaneamente “in linea” con più mezzi di comunicazione, costi­tuisca una valida risorsa per un’efficace e non passiva integrazione, la lingua stampata è ancora oggi essenziale. Si può discutere se sia più un medium dominante, segnaletico di superiorità sociale o anche solo un tramite indispensabile per vivere nelle società industriali, come proble­matizza Bottani:

Si potrebbe quasi dire che la scrittura sta diventando superflua, almeno per quel che riguarda un certo tipo di comunicazione. Senza ricorrere alla fanta­scienza, si può già ipotizzare una società ad alta tecnologia che funziona senza che ampi strati della popolazione sappiano scrivere (Bottani, 1986, p. 115).

Si può anche ipotizzare che i numerosissimi analfabeti strutturali e funzionali, sui quali si è tornati a dibattere vivacemente proprio nel mo­mento dell’esplosione dei media elettrico elettronici, annuncino nuovi comportamenti culturali e nuove modalità di comunicazione del tutto sufficienti a sopravvivere quotidianamente. Ritengo tuttavia che la let­tura e la scrittura siano indispensabili e che la scuola sia il luogo privile­giato del loro apprendimento:

  • perché è difficile pensare a un uso non stupido delle sempre più per­vasive tecnologie informatiche che non passi attraverso l’apprendi­mento del codice della scrittura;
  • perché ancora oggi troppi elementi di discriminazione sociale com­plessiva passano attraverso il dominio dell’alfabeto;
  • e perché, più profondamente, la scrittura è il linguaggio privilegiato per la costruzione del pensiero formale, riflesso, razionale, compo­nente essenziale dello sviluppo integrale non solo delle persone, ma anche delle società.

La multimedialità, infine, proprio nella sua definizione più comple­ta di uso integrato delle diverse tecnologie della comunicazione, può re­lazionarsi a una profonda modificazione strutturale del sistema forma­tivo, in cui si riducano, al di là della formazione iniziale comune, rispon­dente a esigenze non solo cognitive o professionali, i luoghi della forma­zione per gruppi omogenei in compresenza, a favore di un policentri­smo non tanto delle agenzie quanto dei percorsi soggettivi. Già da ora la tecnologia multimediale, sia pure in maniera parziale, è usata inten­zionalmente per alcune strategie formative in ambiente extrascolastico e per ridurre gli effetti negativi di un eccesso di utenti sulle strutture scolastiche insufficienti (13). E già da ora sono multimediali, con varie combinazioni di media (più frequentemente musica e video, ma anche lettura, video e musica), molti usi del tempo libero giovanile, i luoghi e i modi delle aggregazioni dei giovani, quelli attraverso cui passa la so­cializzazione orizzontale.

3. Integrazione, comunicazione, intenzionalità

Il passaggio dalla lettura della socializzazione in termini di trasmis­sione/integrazione a un modello centrato sulla comunicazione/costruzione sociale (14) è analizzabile in relazione al più generale mutamento socio­culturale e allo spostamento di paradigmi che ha interessato le scienze sociali e che ha sottolineato sempre più la posizione attiva del soggetto nei confronti della società. È possibile e interessante, tuttavia, cogliere anche alcune relazioni significative (non deterministiche) con la trasfor­mazione dei media dominanti nella comunicazione sociale.

Il paradigma durkheimiano della socializzazione come trasmissione da chi sa a chi non sa rispecchia un’organizzazione del sapere fondato sulla scrittura e sulla stampa, un sapere formale non immediatamente accessibile a tutti e acquisibile solo attraverso un training specialistico e differenziato guidato da insegnanti esperti. Certamente DurKheim, ana­lizzando l’educazione, non si ferma molto sul problema dei linguaggi. Quando parla dell’apprendimento della lingua ne sottolinea la capacità di modellare il pensiero, ma è preoccupato soprattutto di dimostrare la superiorità della società sull’individuo e le caratteristiche del linguaggio come “cosa sociale”. Egli non focalizza l’attenzione sugli stili cognitivi, ma piuttosto sui contenuti della trasmissione sociale, in termini di valo­ri, credenze, norme morali, opinioni collettive, categorie interpretative della realtà. L’entrata nella vita adulta è mediata alla sua base da una educazione alla razionalità e al sapere scientifico che, assieme alla mora­le democratica, costituiscono i principi irrinunciabili della “formazione una”. Ragione e scienza sono sicuramente per Durkheim valori, princi­pi comuni a tutti e che pochi oserebbero avversare apertamente nella società del suo tempo, più che modalità di conoscenza. Tuttavia, il pro­cesso di istituzionalizzazione della funzione di socializzazione, definito compiutamente da questo autore, presenta sicuri parallelismi con l’ana­lisi che abbiamo fatto del medium stampa. Durkheim, come è noto, de­finisce l’inserimento sociale dell’uomo come un processo specifico e com­plesso, caratterizzato da tecniche particolari diverse dall’imitazione, ri­chiedente un lasso di tempo prolungato, luoghi particolari separati dalla vita quotidiana (la scuola sotto il controllo dello Stato o la formazione professionale gestita dalle corporazioni) ed educatori specializzati. C’è un’età specifica dell’apprendimento, quella infantile e giovanile, carat­terizzata da subordinazione, incompiutezza sociale e soggettiva, progres­siva individuazione attraverso l’assunzione di ruoli.

Ora, come abbiamo visto, è proprio il pensiero formale e astratto, legato alla scrittura e alla stampa, a favorire la separazione della cono­scenza dall’esperienza diretta, dal sapere di senso comune, a definire l’apprendimento come processo specialistico, differenziato dal crescere quotidiano e dal contatto immediato e spontaneo col contesto di vita, e a favorire il formarsi di identità individuali, organicamente e non mec­canicamente legate al sociale. E ancora, la scrittura e la stampa, con le loro caratteristiche di codici specialistici, diventano strumento di distin­zione tra esperti e non, tra adulti e non, tra ruoli centrali e marginali. La stessa distinzione durkheimiana tra solidarietà meccanica e solida­rietà organica potrebbe ricavare elementi di chiarificazione dall’analisi delle differenze comunicative tra oralità e stampa.

Altrettanti parallelismi è possibile individuare tra il modello di so­cializzazione centrato sulla comunicazione/costruzione sociale e l’impatto dei media elettrico elettronici.

Queste tecnologie comunicative rendono di nuovo l’ambiente diffu­so altamente significativo nella socializzazione del soggetto, rompendo le mura delle istituzioni e le barriere dell’età ed espandendo contempo­raneamente la quantità dei sistemi di simboli attraverso cui possono es­sere rappresentati e compresi i processi sociali.

In specifico, con la televisione   come molti, anche esasperatamente e con accenti tragici per le ripercussioni sulla condizione dell’infanzia (Postman, 1984), hanno messo in evidenza   l’inserimento nei fatti del mondo torna ad accompagnare il soggetto nel suo crescere quotidiano, senza la mediazione e la graduazione dell’istituzione scolastica. I mes­saggi televisivi riportano a un apprendimento “in diretta”, non in gra­do però di (o non sempre intenzionato a) selezionare le informazioni in base all’età, e quindi potenzialmente capace di incrinare la socializza­zione come trasmissione dall’educatore adulto che sa al bambino che non sa, di aumentare le occasioni di simmetria e di negoziazione nella rela­zione formativa. La relativa indifferenziazione per età della comunica­zione massmediatica o la rottura di una divisione netta tra le informa­zioni che arrivano ad adulti, giovani e bambini, rendono difficile una distinzione tra saperi adatti e non adatti all’infanzia e un controllo del­l’educatore sulle conoscenze che vengono trasmesse ai socializzandi, fa­vorendo una maggiore partecipazione attiva del soggetto alla costruzio­ne del processo socializzativo (così come prevede il modello comunica­zionista). Lo stesso codice linguistico televisivo, caratterizzato da ele­menti che lo avvicinano all’oralità e alla conoscenza di senso comune, ripropone i processi empatici, identificatori, di condivisione tra i sog­getti, valorizzati dall’analisi interazionista e costruttivista della socia­lizzazione.

Si tratta, tuttavia, nel caso dei media elettrico elettronici, di una “em­patia a distanza”, di un face to face medialmente prodotto, di un’identi­ficazione e condivisione rispetto a una rappresentazione simbolica esterna alla realtà, in fondo, anche, di un’appartenenza “spaesata” (Vattimo, l9c,9) e continuamente mutante.

Infine, proprio questa moltiplicazione dei sistemi di simboli legata alla Multimedialità è in stretto parallelismo con la “pluralità dei mondi” del modello comunicazionista, soprattutto se vista in prospettiva olso­niana, di separazione e contrapposizione tra ambiti comunicativi.

I parallelismi non vanno tuttavia esasperati, trattandosi di processi in cui le variabili in gioco, come sempre, sono molteplici e variamente intrecciate, permettendo di riprendere più volte la narrazione a secon­da della dimensione che di volta in volta si individua come prospettiva di lettura dei processi.

In specifico, quando si arriva a osservare i fenomeni in relazione alla comunicazione tecnologicamente mediata, non solo è necessario tener conto dell’effervescenza nell’innovazione e nella produzione che ritra­sforma le relazioni tra i linguaggi e i saperi e poco concede alla certezza delle rappresentazioni e delle definizioni, ma si può, più in generale, sot­tolineare, come molti hanno fatto, che la relazione tra tecnologia e pro­cessi socioculturali è leggibile in entrambe le direzioni di influenza. Se­condo questa prospettiva, se la tecnologia è forza attiva della società, contribuendo al suo mutamento, è altrettanto vero che la tecnologia è il risultato di progettazioni e scelte che si radicano profondamente nelle strutture cognitive e sociali esistenti, spesso con relazioni non immedia­tamente evidenti, ma anche frutto di intenzionalità e politiche esplici­te. E, ancor più,

gli esseri umani non sono semplici utenti passivi della tecnologia, ma veri e propri progettisti in grado di realizzare microecologie d’uso e di comunicazione che

solo in parte dipendono dalle caratteristiche e dai vincoli delle tecnologie. In

misura rilevante dipendono invece dal tipo di assetto societario e dal carattere

dell’interazione sociale preesistente (Lanzara, 1990, p. 187).

Se riferiamo tutto questo all’ambiente educativo, possiamo non solo ricavarne un’accresciuta attenzione all’uso che i singoli soggetti (tutti i soggetti della relazione educativa) fanno dei media, ma anche ai conte­sti sociali d’uso e alla dimensione dell’intenzionalità nell’azione educativa.

I nuovi media della comunicazione elettrico elettronica potenziano in una prima fase una diffusa socializzazione ambientale, non formale e non organizzata esplicitamente per fini educativi, esterna alle istitu­zionali agenzie di socializzazione (entrando tuttavia in relazione con es­se). Da questo primo processo di diffusività e di de differenziazione dei contesti formativi, però, si sta già procedendo a nuove tendenze di divi­sione del lavoro di socializzazione secondo le quali, come si è visto, l’ap­prendimento e il controllo della Multimedialità trovano posto in parte all’interno della famiglia e, soprattutto per quanto riguarda i codici, al­I’interno di una scuola rinnovata e da rinnovare. Nella misura in cui non solo per le conoscenze informatiche, ma anche per l’utenza televisiva, si comincia a parlare di “competenza” progressivamente crescente con gli anni e con l’esperienza, si apre lo spazio per un’azione intenzionale, formalizzata ed esplicita, rivolta all’insegnamento/apprendimento di que­sti codici, e per l’individuazione di figure di operatori specializzati (15), sia che ciò avvenga all’interno di un’agenzia differenziata come la scuo­la, sia che si traduca anche in un’intenzionalizzazione pedagogica, come già sta avvenendo, di frammenti della comunicazione televisiva.

Si tratta ora di capire come si modelleranno reciprocamente i nuovi codici e i contesti formativi istituzionalizzati (16), consapevoli però che le agenzie formali di socializzazione non traducono tour court in fatti edu­cativi avvenimenti sociali e tecnologici esterni, ma prevedono e richie­dono l’azione intenzionale, di progettazione e di scelta, di educatori, po­litici, cittadini.

L’apprendimento della multimedialità può effettivamente essere una risorsa indispensabile nella società contemporanea e può contribuire al­la formazione di personalità più equilibrate e integrate se si riesce a pro­durre e mediare costantemente e dialetticamente specificità e commi­stione, garantendo una presenza equilibrata dei diversi media. Confron­tarsi con più fonti di comunicazione e gestire più codici non significa di per sé diventare indifferenti di fronte alla pluralità dei mondi e dei valori, maturare solo identità deboli, in bilico tra dissolvimento e indi­vidualismo navigante. Ma tutto ciò è legato all’esercizio di intenzionali­tà da parte dell’educatore, sia nel momento della progettazione sia in quello più propriamente operativo. In questa prospettiva il modello del­I’integrazione e quello della comunicazione non sono di necessità rigi­damente contrapposti ed escludentisi a vicenda.

L’agente socializzatore può operare secondo il modello vygotskiano del “prestito di coscienza”, non imponendosi unilateralmente, allacciando “con il bambino un dialogo inteso a fornirgli indicazioni e appoggi che gli consentano una nuova salita, facendogli fare quei passi avanti di cui egli, da solo, non è ancora in grado di apprezzare il significato” (Bru­ner, 1988, p. 162), e trasmettendo criteri di orientamento e regole del gioco. Questo però non comporta necessariamente la rinuncia all’azio­ne di selezione di fini e significati, relazionati ai media e ai loro sistemi simbolici, non da essi determinati.

NOTE

1.Nel campo della psicologia sociale e della psicologia evolutiva, il volume curato da Ugazio (1988) fornisce un’ampia ricognizione dell’avanzamento del dibattito. A conferma del rinnovato interesse del pensiero di L. S. Vygotskij, il suo testo fondamentale, Pensiero e linguaggio, è stato ripubblicato nel 1990, in “prima traduzione mondiale integrale basata sull’edizione originale del 1934”, presso l’editrice Laterza.

2 Il lavoro di Bernstein è ampiamente conosciuto anche in Italia attraverso numerose traduzioni e commenti. Una riflessione sintetica sullo sviluppo della sua teoria in Benadusi

3 La bibliografia è ampia e conosciuta tra gli studiosi e gli operatori del settore. Tutta via, oltre che nel citato testo di Benadusi, una guida alla lettura si trova in Besozzi (1983).

4 Interessante è il dibattito sulla violenza, anche linguistica, nei confronti delle classi lavoratrici, presente nella teoria della deprivazione culturale, ma non è il dibattito sul tema della disuguaglianza che qui ci interessa.

5 Ricordiamo H. A. Innis, E. Eisenstein, E. Havelock, W. Ong e, naturalmente, H. M. McLuhan. A eccezione di quest’ultimo, le loro opere sono state tradotte e pubblicate in lingua italiana solo negli anni ottanta.

6 Mi piace sempre ricordare un altro slogan, ancora più significativo, che costituisce il titolo di un libro scritto da McLuhan e Fiore: “Il medium è il massaggio”, a intendere l’ope­ra di penetrante modellazione delle tecnologie comunicative.

7 Non manca chi vede elementi di continuità tra televisione e computer dal punto di vista dei processi intellettivi attivati. La Greenfield, ad esempio, ritiene che televisione e computer, in particolare nell’uso per i videogiochi, implichino processi “in parallelo”, cioè la possibilità di assumere informazioni simultaneamente da più fonti (Greenfield, 1985).

8 In Italia su questi temi ha lavorato molto la pedagogista C. Pontecorvo, la quale ha curato la traduzione in italiano delle opere di Olson.

9 Per un’analisi dei processi di “globalizzazione” a partire dal settore della produzione televisiva si veda Sartori (1989). Significativa è anche la riflessione del Censis che nel rap­porto del 1989 sulla situazione sociale del Paese dedica per la prima volta un capitolo al set­tore della comunicazione, riconoscendone la “crescente importanza e ormai la centralità nel nostro sistema”.

10 Si tratta di una competenza che cresce con lo sviluppo soggettivo, ma che è andata anche aumentando in senso storico, dai tempi della prima televisione multirete a oggi (Car­minati, 1990).

11 Si veda, ad esempio, la trasmissione “L’albero azzurro” prodotta dalla Rai nel 1990 per la fascia di utenti fino ai sei anni, capace di costruire una comunicazione più rallentata ma non noiosa.

12 Per un’analisi della relazione esistente tra famiglia e nuove tecnologie informatiche si veda Donati (1986).

13 Si fa riferimento alle esperienze di università e corsi di formazione professionale a distanza, diffusi anche recentemente sul territorio italiano, e, per l’infanzia, ad alcuni espe­rimenti recentissimi sull’insegnamento della lingua inglese (sono del 1990 i “sistemi multi­mediali” della Eri, “Osvaldo”, e della Armando Curcio, “Play Time”, in realtà fondati su un uso combinato della comunicazione stampata e di quella televisiva).

14 Si veda in questo volume il contributo di Elena Besozzi, pp. 71 114.

15 Già con l’anno scolastico 1989 90 sono entrati in servizio presso la scuola media inferiore figure di operatori tecnologici con specifiche competenze in ordine alla pluralità delle tecnologie comunicative nella formazione

16 Del resto, anche per il medium stampa si può sostenere che, se influenzò il formarsi di un particolare tipo di scuola moderna, ne fu a sua volta influenzato. Si pensi non solo alla mediazione “orale” della relazione insegnante allievo, ma anche e soprattutto alla pro­gressiva opera di controllo e graduazione dei saperi attraverso la predisposizione di specifici “libri di testo” utilizzati nel contesto scolastico.

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